Storia della Chiesa di Maria Vergine Immacolata
La documentazione più antica che abbiamo, riguardo le chiese di Ghilarza, risale al 1160 grazie alle schede di "Su Condaghe di S. Maria di Bonarcado" che parlano di un possesso vescovile (domo; omo),ovvero una sorta di fattoria, dove i servi che vi lavoravano venivano venduti o donati come oggetti; ad esempio il giudice Barisone I dona degli schiavi come ex voto alla Madonna di Bonarcado con questa formula: "Dono questi servi per la salvezza della mia anima e perché abbia bravi figli". Il possesso in questione è chiamato nel documento Santu Paraminu e si identifica con la chiesa di Sancti Parmezi citata, insieme a quella di S. Maria di Gilarce, nell'epistola 481 che il Papa Onorio III scrive nel 1224 all'arcivescovo arborense Torchitorio per ridonarli alcuni possessi che gli erano stati sottratti.
LE CAMPANE
Di fianco si elevava la torre campanaria, la stessa che noi oggi possiamo vedere, infatti solo la cupoletta terminale fu rifatta nel Settecento.Le quattro campane della torre recano queste iscrizioni:
- Sancte Joannes Baptista -ora pro nobis - anno 1480 sumpitibus populi procuratore rosari Joannes Batista Falcone
- Sumptibus ecch-ie Sancti Macharii abbatis -ora pro nobis orare debet protore ubit Effio De Montis Arfice Joanne -Basilio Ates Cuilarca Anno 1601
- S. Macari defende nos in hora mortis nostre.ANO DOMINI 1727 OPIDI GILARZA
- Die XXIV Martii 1926 parrocho teologo Beniamin Zucca - Mariae Immaculatae dicatu -. us Giorgius Delrio Archiep consecravit.
La struttura e le finestre della torre campanaria, dal sesto molto rialzato, collocano la costruzione nella metà del Cinquecento coerentemente alla facciata e alla data che si leggeva sull'architrave della porta. Tale data - 1533 - indica certamente l'anno in cui fu eseguita la facciata; comunque la chiesa era già ultimata nel 1558 quando fu presentata al Re di Spagna e di Sardegna Filippo II una petizione per trasferire la sede vescovile, da Santa Giusta a Ghilarza, nell'archivio parrocchiale è conservato il documento con cui , nel 1586,il re rispose alla petizione. In quest'ultima si fa presente che mentre la sede di S. Giusta era disagevole perché periferica rispetto agli altri centri della diocesi, malsana perché confinante con gli stagni, "ristretta" perché contava appena sessanta o settanta case, Ghilarza invece, villaggio di Sua Maestà situato nel centro di tutto il detto Vescovado, villaggio principale ed avente forse più di cinquecento case con alloggio vescovile e con una chiesa principale sotto l' invocazione di S. Macario con molte cappelle, campanile con molte campane e con molti altri particolari e generali arredi- ed ornamenti e nel quale potrebbero comodamente vivere risiedere il detto vescovo, l'arciprete ed i canonici dello stesso Vescovado........". Questa descrizione potrebbe indurre a credere che la chiesa non fosse poi tanto indecorosa se veniva proposta come sede del vescovo. Il Licheri scrive che propria a tal fine la chiesa venne ideata e costruita. E' da ritenere, invece, che la chiesa si rese necessaria per le dimensioni raggiunte dall'abitato e per il fatto che il paese era andato estendendosi ad Est, proprio intorno a quella antica piccola chiesa di S. Maria Maggiore cui fa cenno l'epistola papale succitata del 11 giugno 1224. Questa chiesa con molta verosimiglianza venne incorporata nella costruzione del 1533.Nella schema planimetrico, al quale si informano molte delle chiese costruite nel Cinquecento, sia le cappelle laterali, sia il presbiterio venivano ricoperte di volta a crociera costolata.Quelle della chiesa di San Macario Abate, invece avevano tutte copertura lignea. Sappiamo con certezza che le tre cappelle del presbiterio: la centrale detta "capilla maior" le laterali dedicate alla Madonna della Neve , quella di sinistra, a S. Macario quella di destra, ebbero volta a crociera solo nella seconda metà del Settecento più di 200 anni dopo la costruzione della chiesa. In tale occasione sopra la cappella maggiore si innalzò una piccola cupola su archi e tamburo ottagono del tipo diffusa in quel secolo nelle chiese della Sardegna.Non sappiamo invece quando furono voltate le cappelle che si aprivano lungo i lati della navata certamente lo furono in momenti diversi perché risultavano disuguali e per altezza e per dimensioni.D'altra parte la decorazione di queste cappelle (di cui alcuni elementi furono inseriti nel 1899 nella parte esterna del porticato di casa Badalotti) indica nel modellato poco morbido, quasi ligneo, un'epoca molto tarda.A sinistra dell'ingresso principale si aprivano le cappelle dedicate a S. Giovanni Battista ( vi era il vecchio fonte battesimale in pietra e l'accesso interno al campanile) seguiva la cappella del Rimedio e, accanto a questa, la cappella di N. S. d'Itria che aveva anche altre intitolazioni come quella del Rosario e della Vergine Addolorata. A destra la prima cappella era dedicata a S. Sebastiano e nel Settecento fu sistemato qui un nuovo fonte battesimale. La seconda cappella era quella di San Francesco, la terza quella di S. Luigi. Queste ultime due non furono mai voltate e mantennero fino al 1873 il tetto in legno.Il pavimento della chiesa era costituito da lastre di trachite e poiché nella chiesa seppellivano i defunti erano visibili le lastre che tali tombe ricoprivano, i sacerdoti invece venivano sepolti nel presbiterio.Le cappelle risultavano tutte dotate di ancone o retabli cioè di tavole dipinte poste sull'altare. Ogni cappella, verso la navata era chiusa da balaustrate in legno; persino il pulpito ed il fonte battesimale avevano la loro balaustrata. Nel coro vi erano stalli di noce, un organo ed otto quadri raffiguranti gli apostoli.Nella parete prospiciente la navata stava la statua della Immacolata recentemente restaurata e collocata nella stessa nicchia che l'aveva ospitata per secoli.L'altare maggiore era in legno. Nel 1770 nella parte anteriore fu posto un pannello con incisi foglie, frutta, uccelli a imitazione dei preziosi broccati allora di moda e per renderlo più verosimile alla stoffa, fu dipinto e lumeggiato d'oro dal maestro Gavino Gigante di Sassari, artista in quegli anni famoso. Nel 1817 il presbiterio fu rinnovato da Domenico Franco che, insieme al fratello Santino, teneva bottega a Cagliari nel quartiere della Marina; essi eseguirono tra l'altro a Tuili un ricchissimo altare con marmi policromi considerato una dei più interessanti altari rococò dell'Isola.
Opere di Pregio
C'è anche, un piccolo gruppo statuario, pure esso in legno intagliato e policromato, raffigurante S. Raffaele e Tobia figlio. L'arcangelo indossa un veste verde, mantellina blu e manto azzurro; dietro le spalle ha due grandi ali varicolori. E' in atto di indicare il pesce a Tobia; e questi sta, inginocchiato, in veste di popolano. Tra le due figure è collocato il cane di Tobia. L'opera è attribuibile a G.A. Lonis (Secolo XVIII) o alla sua scuola.